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Amazon e braccialetto elettronico: è legittimo il controllo a distanza?

La notizia del brevetto inerente i braccialetti dei dipendenti Amazon rimbalza a più riprese ovunque, sul web e sui giornali. Alle analisi politiche e sociologiche che abbondantemente circolano, da parte nostra vorremmo offrire un contributo prettamente giuridico.
Il braccialetto in questione sarebbe in grado di guidare il dipendente Amazon nella scelta del prodotto da prelevare sullo scaffale, agevolandone il riconoscimento mediante sensori installati sullo stesso ed emettendo impulsi, quali suoni o vibrazioni, in caso di prelevamento di prodotti errati. La liceità nell’utilizzo di questo strumento potrebbe al contempo sussistere o non sussistere, partendo sempre dall’art 4 dello Statuto dei Lavoratori, afferente gli strumenti di controllo dei dipendenti.
La norma in questione dispone che i sistemi di controllo a distanza dell’attività lavorativa possano essere impiegati esclusivamente per necessità organizzative, produttive, nonché per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. L’installazione è possibile previo accordo collettivo stipulato con le RSU, con le RSA o con le associazioni più rappresentative a livello nazionale, oppure previa autorizzazione del competente Ispettorato del lavoro.

Ne deriva che, ove i braccialetti Amazon dovessero esser qualificati quali “strumenti di controllo a distanza”, l’autorizzazione al loro utilizzo potrebbe aversi esclusivamente nel caso di accordo tra le parti sociali, oppure previa autorizzazione amministrativa dell’Ispettorato.

A nostro parere la facoltà di autorizzare l’uso del braccialetto Amazon quale strumento di controllo sarebbe quanto mai remota, o per lo meno improbabile: parrebbe quanto mai inusuale che i sindacati o l’Ispettorato consentano l’imposizione di uno strumento atto al mero controllo del lavoratore per il semplice scopo di controllarne l’efficienza lavorativa.
Ad ogni modo, lo stesso art. 4 Statuto Lavoratori prevede che le autorizzazioni appena menzionate non siano necessarie per gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa: se, come sembra, i braccialetti in questione dovessero configurarsi quali strumenti utilizzati dal lavoratore per svolgere la propria attività, Amazon non sarebbe onerata di richiedere alcuna preventiva autorizzazione.

E qui sorge la polemica.

Infatti, se da un lato il braccialetto che guida il dipendente nel recupero dell’oggetto dagli scaffali rappresenta un utilissimo strumento a supporto del lavoratore, dall’altro la memorizzazione dei dati raccolti dal braccialetto stesso permetterebbero di misurare la performance del dipendente, controllandone letteralmente la tempistica d’esecuzione delle attività lavorative ed esponendolo al giudizio dell’azienda.

Proprio l’aspetto appena menzionato rappresenta il più problematico degli effetti causati dal braccialetto elettronico: esso consentirebbe un’invasiva presenza aziendale nella quotidianità del lavoratore, che certamente potrebbe subire un continuo e persistente monitoraggio delle proprie prestazioni lavorative anche indipendentemente dall’utilizzo in quanto supporto nello svolgimento delle proprie mansioni.
Riteniamo necessario completare l’analisi dell’art. 4 Statuto Lavoratori, il cui terzo comma precisa che le informazioni raccolte dai dispositivi sono utilizzabili a condizione che il lavoratore sia adeguatamente informato rispetto alle modalità d’uso degli strumenti di effettuazione dei controlli, e nel rispetto di quanto previsto dalla vigente normativa privacy. Ebbene il limite di utilizzo dei dati monitorati dall’azienda pare quindi essere l’informativa resa ai lavoratori, con la naturale conseguenza che il datore di lavoro, Amazon compreso, non potrebbe utilizzare per nessuno scopo, nemmeno disciplinare, i dati raccolti dal braccialetto, salvo non intervenga l’apposita informativa.

Il dato da ultimo riferito non è da poco: se per adesso l’informativa a cui si fa riferimento è quella di cui al D.lgs. n. 196/2003, non possiamo certamente ignorare che il 25 maggio 2018 entrerà in vigore il Regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di protezione delle persone fisiche (c.d. GDPR). Questo riguarda il trattamento dei dati personali e la libera circolazione degli stessi: certamente tale norma ha un impatto rilevante anche sul trattamento dei dati afferenti i lavoratori, ivi compresi quelli raccolti dall’azienda in esecuzione del contratto di lavoro, anche relativi alle performance dei dipendenti.

Tuttavia, il braccialetto non appare al momento in alcun modo uno strumento di lavoro che possa utilizzarsi limitando l’onere del datore a un’informativa, per quanto dettagliata e circostanziata sia.
Alla luce di ciò, Amazon e qualsivoglia datore di lavoro che intenda utilizzare i dati dei dipendenti deve essere compliance col GDPR in vigore dal 25 maggio 2018. Pertanto, la condizione cui il datore di lavoro dovrebbe far fronte per poter utilizzare i dati dei dipendenti, anche eventualmente generati dagli strumenti di lavoro, sarà certamente l’essersi conformato al GDPR nel rispetto dello Statuto dei Lavoratori.

Per concludere, se per un verso l’art 4. dello Statuto dei Lavoratori sembrerebbe consentire di fatto l’utilizzo di uno strumento di lavoro e di controllo dei lavoratori quale il braccialetto brevettato da Amazon, deve certamente considerarsi che la sua imposizione ai lavoratori onererebbe Amazon, e in generale qualsiasi datore di lavoro, di adeguarsi preventivamente al GDPR. Questo significa prevedere delle precise policy di raccolta e trattamento dei dati monitorati sul lavoratore, il tutto previa autorizzazione dei competenti enti amministrativi e nel rispetto dello Statuto dei Lavoratori.
Se per un verso queste attività potrebbero esser scontate per una realtà del calibro di Amazon, riteniamo che nella maggior parte delle PMI italiane non si giungerà nel breve periodo ad una concreta regolamentazione del tema. Di conseguenza i controlli svolti dalle imprese sui lavoratori, in carenza di autorizzazioni amministrative e senza adeguate privacy compliance, risulterebbero certamente illegittimi.

 

Avv. David Satta Mazzone
Avv. Andrea Maria Mazzaro

 

 

 

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